Stefano D’Andrea-Professore associato di diritto privato nell’Università della Tuscia
Appello al Popolo
Onorevoli Parlamentari,
tra breve sarete chiamati a convertire in legge il decreto legge sulle liberalizzazioni. Come cittadino e come studioso di diritto, mi permetto di sottoporvi alcune osservazioni relative all’articolo 1 del decreto legge, rubricato “Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese”, sperando che possano esservi utili nell’adempimento dei vostri doveri di rispettare la Costituzione Italiana e di emanare norme tecnicamente dignitose e comunque non obbrobriose.
1. Intanto, pur volendo soprassedere sulla sussistenza dei requisiti di necessità ed urgenza con riguardo all’introduzione delle discipline puntuali contenute in altri articoli del decreto, con l’art. 1, come 3, il Governo vi chiede di delegarlo ad emanare entro il 31 dicembre 2012, uno o più decreti “per individuare le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e regolamentari dello Stato che, ai sensi del comma 1, vengono abrogate a decorrere dall’entrata in vigore dei regolamenti stessi”.
E’ il Governo stesso ad ammettere che in questa materia manchino la necessità e l’urgenza. In forza della nostra Costituzione, una simile delega dovrebbe essere contenuta in un decreto legislativo, nel quale sia il Parlamento ad indicare i principi e i criteri direttivi ai quali il Governo si deve attenere nell’esecuzione della delega. Qui siamo in presenza, invece, di un Governo che prevede i criteri ai quali si dovrà attenere e chiede al Parlamento di essere delegato ad applicare quei criteri! E’ vero che è già accaduto altre volte; tuttavia, è pur vero che il “governo dei professori” non mostra di amare la Costituzione più dei non professori.
2. Ben più grave è il fatto che il Governo abbia chiesto al Parlamento di essere delegato ad abrogare “le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione comunque denominati per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità”. Se la disposizione normativa fosse convertita senza modifiche ne deriverebbe che il Governo sarebbe delegato ad abrogare anche le norme che pongano limiti giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante, sebbene non compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Il Governo, in attuazione della delega, abrogherebbe anche norme costituzionalmente legittime – perché giustificate da un “interesse generale costituzionalmente rilevante” – ma in contrasto con l’ordinamento comunitario. Chi assicura il Popolo italiano, e il Parlamento che lo rappresenta, che le svariate discipline, risultanti dall’abrogazione di norme costituzionalmente legittime (ma incompatibili con l’ordinamento comunitario) siano costituzionalmente legittime? Chi assicura il Popolo Italiano, e il Parlamento che lo rappresenta, che l’abrogazione di norme costituzionalmente legittime ma reputate (dal Governo) incompatibili con l’ordinamento comunitario non dia luogo a discipline che sacrificano tutti gli interessi pubblici e collettivi coinvolti, in favore del solo interesse allo svolgimento dell’iniziativa economica privata?
Nella delega chiesta dal Governo è sancita la supremazia del diritto dell’Unione Europea rispetto alle norme italiane, anche di rango costituzionale, che disciplinano i rapporti economici. Il Governo chiede una autorizzazione ad abrogare (anche) limiti costituzionalmente legittimi all’esercizio dell’attività economica, se essi sono incompatibili (a parere del Governo) con l’ordinamento comunitario, a prescindere dal fatto che le discipline che residuerebbero dall’abrogazione siano costituzionalmente legittime o invece illegittime in ragione del sacrificio di interessi pubblici costituzionalmente rilevanti in favore dell’interesse al più agevole svolgimento dell’iniziativa privata.
Più coraggioso era stato chi aveva proposto di modificare l’art. 41, terzo comma, della Costituzione, il quale prevede che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sociali”. L’art. 1 del decreto sulle liberalizzazioni è invece un tentativo per aggirare surrettiziamente l’ostacolo costituzionale e abrogare norme costituzionalmente legittime con il rischio che la disciplina risultante dall’abrogazione sia costituzionalmente illegittima ma conforme all’ “ordinamento comunitario”.
D’altra parte è singolare, e direi assurdo, che il Governo chieda al Parlamento la delega ad abrogare le norme che pongano limiti alla libertà di iniziativa privata, i quali non siano giustificati da un interesse generale di rilevanza costituzionale. Quelle norme, se contenute in leggi o atti aventi forza di legge, sono già costituzionalmente illegittime. E la illegittimità deve essere accertata dalla Corte Costituzionale. Se invece sono contenute in fonti di secondo grado, esse devono essere disapplicate dai Giudici. Dunque con riguardo alle norme incostituzionali o illegittime il governo pretende di sostituirsi alla Corte Costituzionale o all’ordine giudiziario. Con riguardo alle norme costituzionalmente legittime, il governo chiede la delega ad abrogarle, per adeguare l’ordinamento italiano all’ordinamento dell’unione europea senza curarsi se la disciplina risultante dall’abrogazione sia costituzionalmente illegittima (perché non indirizzerebbe e coordinerebbe l’iniziativa economica, pubblica e privata, ai fini sociali).
3. Ugualmente gravissima è la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 1, la quale prevede che “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni o condizioni all’accesso e all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate e applicate in senso tassativo…”.
Con questa disposizione il Governo propone di vietare a priori e in via astratta la applicabilità analogica delle “disposizioni recanti divieti, restrizioni o condizioni all’accesso e all’esercizio delle attività economiche”. Si pensi, per esempio, ad una disposizione che, in ragione di una particolare pericolosità di un’attività economica, preveda una o più “condizioni” (accertamenti tecnici, svolgimenti di analisi e altro). Lo sviluppo della tecnica potrebbe consentire al capitale di valorizzarsi in una attività simile o analoga alla prima ma più pericolosa. Ebbene, se il Parlamento approvasse la norma “proposta” dal Governo – salvo quanto sto per osservare – le disposizioni che prevedono “condizioni” per lo svolgimento della prima non potrebbero essere applicate analogicamente (si può ricorrere all’analogia, in presenza di una apparente lacuna, quando nell’ordinamento è presente una disposizione che disciplini un caso simile o una materia analoga: art. 12, 2° comma delle disposizioni sulla legge in generale).
Le disposizioni che prevedono divieti, restrizioni o condizioni all’accesso e all’esercizio di un'attività economica non sono disposizioni eccezionali, insuscettibili di applicazione analogica (l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale esclude l’analogia per le disposizioni eccezionali). Se può essere respinta la tesi secondo la quale l’iniziativa economica privata è stata (dalla Costituzione) funzionalizzata all’utilità sociale, si deve comunque ammettere che la libertà d’iniziativa economica è un bene costituzionale tra i tanti beni costituzionali; un valore tra i valori; un interesse generale tra gli interessi generali. Il diritto di intraprendere e svolgere una iniziativa economica privata non è un prius, quasi di origine naturalistica, eccezionalmente limitato a tutela di uno o altro interesse generale costituzionalmente rilevante. Le norme che il Governo vorrebbe abrogare, assieme a tante altre, esprimono, invece, il bilanciamento e la ponderazione tra interessi costituzionali di pari grado, tutti da tutelare e tutti in qualche modo sacrificabili, per realizzare gli altri. Quelle norme, dunque, non fanno eccezione ad alcuna altra norma e sono la regola di bilanciamento tra vari interessi pubblici.
Probabilmente, anzi direi certamente, la disposizione che il Governo vi invita a confermare è incostituzionale per violazione del principio di ragionevolezza. E’ assurdo, irragionevole e frutto di fanatismo ideologico stabilire a priori, e non con riguardo a una o altra precisa disposizione, che tutte le disposizioni che pongono limiti “divieti, restrizioni o condizioni all’accesso e all’esercizio delle attività economiche” non possano essere applicate per analogia.
4. Assurdo e dilettantesco – altro che governo dei professori! – è poi il fatto che il Governo abbia imposto ai Giudici, con riguardo alle medesime disposizioni, ossia quelle “recanti divieti, restrizioni o condizioni all’accesso e all’esercizio delle attività economiche”, l’interpretazione "restrittiva". Si tratta di delirio napoleonico, rispetto al quale le pretese di Berlusconi di sottomettere i giudici al potere del governo erano capricci fanciulleschi.
Due sono le ipotesi che tradizionalmente si lasciano ricondurre alla formula “interpretazione restrittiva”.
Da un lato, la polisemia delle parole e delle frasi pone spesso l’interprete dinanzi a due opzioni interpretative, delle quali una comporta l’applicazione della disposizione a determinati casi e l’altra (l’opzione restrittiva) soltanto ad alcuni di essi.
Dall’altro, accade che il legislatore si sia espresso male, nel senso che l’adozione dell’unico senso letterale conduce ad applicare la disposizione a casi che né il legislatore aveva considerato né, razionalmente, sono assimilabili ad altri che pure si lasciano ricondurre nello spazio semantico della disposizione. L’esempio di scuola del quale solo solito avvalermi è il seguente. Una disposizione dice “E’ vietato sfilare dietro la bandiera rossa”. Essa non sarà applicata ai tifosi di una squadra di calcio che festeggiano la vittoria del campionato. Lo si deduce dalla mancanza di ratio e/o dalla collocazione sistematica della norma e/o dai lavori preparatori. In questo caso l’interpretazione restrittiva è, per così dire, “obbligatoria” ed è in realtà una forma di interpretazione correttiva. L’interprete corregge il legislatore e, aggiungendo un elemento alla fattispecie (“è vietato sfilare dietro la bandiera rossa per motivi politici”), restringe l’applicazione della disposizione ad alcuni soltanto dei casi che ad essa si lasciano ricondurre. In queste ipotesi non è necessario che il legislatore imponga la interpretazione restrittiva. Essa, per così dire, si impone da sé.
Nel primo caso, invece, stabilire se una disposizione debba essere intesa in un significato che la rende applicabile a un gruppo ampio di casi (ai casi A, B e C) o a un gruppo più ristretto di essi (ai soli casi A e B) dipende da una serie di argomenti (la ragione, il collegamento sistematico con il comma precedente o seguente, i lavori preparatori, i precedenti storici e altro) e non ha alcun senso che il legislatore stabilisca a priori che norme aventi un certo contenuto devono essere interpretate restrittivamente. Dall’assurda previsione normativa potrebbero derivare un trattamento diverso di casi molto simili o addirittura la disapplicazione di una norma proprio a quei casi che, come eventualmente emerga dai lavoratori preparatori, il legislatore voleva disciplinare e che si lasciano ricondurre nello spazio semantico della disposizione.
Anche la imposizione della interpretazione restrittiva, dunque, è assurda, irragionevole e frutto del fanatismo ideologico del governo.
5. Concludendo, la lettura dell’art. 1 del decreto legge sulle privatizzazioni mostra:
che il “governo dei professori” non ha alcun rispetto per il Parlamento e la Costituzione, visto che osa scrivere i criteri e i principi dei quali il medesimo Governo dovrebbe tener conto in sede di attuazione della “delega” (in realtà è un Governo che sta tentando di delegare se stesso);
che il “governo dei professori” intende conformare un settore rilevante della disciplina dei rapporti economici all’ ordinamento dell’Unione europea, abrogando discipline legittime sotto il profilo costituzionale, disinteressandosi del fatto che le discipline risultanti dalle abrogazioni siano o meno conformi alla nostra costituzione economica;
che il “governo dei professori” muove da una vergognosa, deplorevole e satanica concezione della libertà di iniziativa economica come dato naturale gerarchicamente sovra-ordinato all’ordine giuridico e, perciò, la sovra-ordina agli altri valori e interessi pubblici di rango costituzionale;
che il “governo dei professori“ intende sostituirsi alla Corte Costituzionale, ai giudici deputati a sollevare le questioni di costituzionalità e alla dialettica processuale nella competenza a eliminare dall’ordinamento disposizioni reputate (dal governo) incostituzionali;
che il “governo dei professori” chiede una delega in bianco per poter procedere a innumerevoli bilanciamenti (alquanto “sbilanciati”) tra la libertà d’iniziativa privata e altri valori costituzionali;
che il “governo dei professori” non ha rispetto per la Costituzione quando, irragionevolmente e fanaticamente, pretende di vietare, a priori, l’applicazione analogica di disposizioni che non hanno o possono non avere carattere eccezionale;
infine, che il “governo dei professori”, spinto dal fanatismo ideologico, non si vergogna di voler imporre - contro la logica e la tradizione giuridica, senza tener conto dei fondamenti del diritto che si apprendono sui banchi delle facoltà di Giurisprudenza durante le lezioni del primo anno, e contro il costituzionale principio di ragionevolezza - l’interpretazione restrittiva di un gruppo di norme individuate in astratto, in ragione della materia da esse disciplinata.
Onorevoli Parlamentari, la semplice lettura dell’art. 1 del decreto sulle liberalizzazioni dimostra che il “governo dei professori” è di gran lunga il peggior governo della storia repubblicana. Voi siete i rappresentanti del popolo. Spetta a voi farlo cadere e cancellare la pagina più vergognosa della Storia dell’Italia.
Stefano D’Andrea
Professore associato di diritto privato nell’Università della Tuscia
Fonte: Appello al Popolo 26 Gennaio 2012
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