articolo di Valerio Valentini per Byoblu.com
A furia di sentirsi dire che l’Italia è il Paese delle mafie e della corruzione, gli italiani si sono ormai convinti che la loro sia una devianza genetica, una specie di brand: siamo mafiosi e corrotti inside, e non c’è niente da fare. Eppure così rischiamo di venire tutti, indistintamente, accumunati a una masnada di infami criminali e di vili affaristi. Senza contare poi il rischio rassegnazione, ovvero quell’assuefazione nei confronti dello status quo che si traduce nella rinuncia al contrasto contro ogni forma di illegalità, che è la vera zavorra al nostro sviluppo.
Prendete il dibattito sulla riforma del lavoro. Fornero Rogers e Monti Astaire continuano a fare il tip-tap sul letimotiv della flessibilità in uscita. Che non è un esercizio di ginnastica posturale ma, tradotto in soldoni, significa la possibilità per il datore di lavoro di licenziare in massa a sua discrezione gli operai (salvo intese e non meglio definite vigilanze sugli abusi), cancellando di fatto l’articolo 18 e facendo un balzo indietro di mezzo secolo nel campo dei diritti sociali. Quando qualcuno li critica, i due si gonfiano come un tacchino e cercano di impressionare, stigmatizzando ogni voce contraria al coro delle lodi sperticate.
Eppure, se questi stessi banchieri tecnocrati si mostrassero quasi altrettanto irremovibili nei confronti della mafia e della corruzione di quanto non siano con pensionati e operai, saremmo già a buon punto nel processo di sfatamento del nostro luogo comune. Invece in questo senso, in quasi quattro mesi di governo tecnico, non è stato sobriamente fatto praticamente un bel nulla. Un provvedimento che invece, per esempio, ci si sarebbe dovuti aspettare è la riforma della stazione unica appaltante, indispensabile per prevenire le infiltrazioni della criminalità organizzata negli appalti pubblici e per evitare che enormi quantità di denaro dei contribuenti svaniscano nel nulla. Sfortunatamente, trattandosi di una riforma che, seppure utile, non massacra i lavoratori onesti, non è di alcun interesse per il duo Monti & Fornero.
La stazione unica appaltante consiste in un organismo di vigilanza sulle varie trattative di assegnazione di appalti pubblici. Un pool di dipendenti statali, insomma, che regola e controlla le procedure per avviare la costruzione di un’opera, cercando di renderle più celeri, rispettose delle normative in materia di sicurezza sul lavoro e, soprattutto, di bonificarle rispetto alla presenza di ditte mafiose o di comitati d’affari corrotti.
Se però non avete mai sentito nominare questa strana creatura prima d’ora, non preoccupatevi. In effetti, praticamente ancora non esiste. Fu approvata nel luglio del 2010 dal ministro Maroni soltanto nella provincia di Caserta, in via sperimentale, dopo che già tra il 2007 e il 2008 era stata testata in Calabria. Infine, il 30 giugno del 2011, Berlusconi firmò il testo del decreto che introduceva per legge la SUA(stazione unica appaltante, appunto). Il guaio è che quel decreto non impone a nessuno di utilizzare questo strumento di controllo e di trasparenza. Si limita ad approvarlo, e poi lascia alla discrezione dei vari enti pubblici l’eventuale sua istituzione. Come dire: “se vi va, fate pure, e sennò fate un po’ come vi pare a voi che tanto è lo stesso”. Infatti, all’articolo 2 del decreto c’è scritto: “possono aderire alla SUA le amministrazioni dello Stato, le regioni, gli enti locali, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici”. L’inghippo sta proprio nella scelta del verbo: quel “possono” dovrebbe essere sostituito con un “devono”. E non si capisce perché non lo si faccia. Se uno strumento è ritenuto utile a fini legali ed economici, va imposto come obbligatorio, non proposto come facoltativo.
Altro problema in riferimento alla SUA è quello relativo alla sua composizione. A stabilirla oggi sono gli stessi organi che intendono servirsene, e non ci sono alcune prescrizioni nazionali circa il suo assetto organizzativo e gestionale. Un organigramma estremamente flessibile, dunque, e che può variare da comune a comune, ma che in realtà finisce con l’appoggiarsi quasi interamente sulle prefetture. A volte, al massimo, viene nominato un consulente legale come commissario. Eppure non sembra questa la scelta ottimale. Innanzitutto, per far sì che la SUA sia efficace davvero, bisogna introdurre una norma che lasci agli enti locali la decisione su quali siano le opere da eseguire, ma che affidi tutta la fase successiva a organismi diversi. Questo per evitare conflitti di interessi e per separare con decisione i controllori dai controllati. In secondo luogo, sarebbe necessario affiancare a funzionari della prefettura specializzati nella materia degli appalti gli agenti della Direzione Investigativa Antimafia, per svolgere attività di controllo nella fase dell’aggiudicazione. E poi sarebbe indispensabile coinvolgere nella SUA anche gli uomini della Guardia di Finanza, per poter andare a verificare direttamente cos’è che avviene nel sistema dei cantieri.
E qui arriviamo a un altro problema: allo stato attuale della legge, il lavoro di vigilanza della SUA termina nel momento stesso dell’assegnazione di un’opera. Di fatto, stabilita la ditta appaltatrice, tutto torna nelle mani dell’amministrazione locale. Ma questo modo di combattere le infiltrazioni mafiose nelle opere pubbliche è del tutto antiquato e denuncia una forte ignoranza in materia di criminalità organizzata. Mafia, camorra e ‘ndrangheta, oggi, non sono più interessate ai grandi appalti, ma hanno affinato le loro tecniche e imparato a insinuarsi successivamente, ovvero nella fase dei subappalti, dei noli a freddo, delle forniture. Lavori, cioè, per i quali non è necessario esibire alcun certificato antimafia. Inoltre, questo modo di agire delle mafie risponde a ragioni di razionalità economica: i piccoli lavori sono rapidi, se ne possono portare avanti molti contemporaneamente e in zone diverse, non richiedono investimenti rischiosi e non attirano, di solito, l’attenzione di media e forze dell’ordine.
Poi, sempre per rimanere in tema di rigore e di equità, sarebbe stato lecito attendersi da questo governo che ad essere aboliti non fossero le tutele dei lavoratori, ma le agevolazioni ai criminali. Fino a quando in questo Paese di sottosopra la delinquenza non sarà più sconveniente rispetto all’onestà, non facciamoci troppe illusioni di veder cambiare le cose. A questo proposito, non si capisce cosa stiano aspettando i superprofessori a introdurre una semplicissima regola: le imprese che vengano scoperte ad assegnare i subappalti alle mafie o a evadere il fisco devono essere interdette da qualsiasi partecipazione nelle opere pubbliche e devono rendere alla collettività tutti gli utili eventualmente incassati attraverso la commissione acquisita.
A meno che la verità non sia un’altra, e cioè che senza ‘ndrangheta, mafia e camorra, l’EXPO, il TAV e il ponte sullo stretto di Messina non sarebbero neppure pensabili. E allora, in fondo, un po’ di corruzione conviene tutti. Tranne, beninteso, ai lavoratori che vengono scippati dei loro diritti: ma loro se ne faranno un ragione.
Fonte: Byoblu 26 Marzo 2012
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