Il premio Nobel indiano per l’Economia boccia i tagli alla spesa pubblica e lamenta i cedimenti alle logiche liberiste
di Filippo Ghira
rinascita.eu
Non sempre gli studiosi e i professori universitari insigniti del Premio Nobel per l’Economia sono collusi con la canaglia liberista e non sempre condividono la deriva imposta dall’Alta Finanza e dai governi che si sono trasformati in loro agenzie di affari. L’indiano Amartya Sen, premiato nel 1998, è uno di quei rari studiosi che non hanno ancora portato il cervello all’ammasso e che non credono che quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili e che il potere politico, oltre a quello reale, debba essere lasciato ai banchieri.
Soprattutto Sen, che proviene da un Paese l’India che deve lottare con una persistente povertà di massa che coesiste, in virtù di un boom economico, con la nascita di una vasta classe media e di una classe di super ricchi, non può accettare la politiche di smantellamento dello Stato sociale imposte dalla Commissione europea ai Paesi membri dell’Unione.
Tagliare la spesa pubblica porterà soltanto recessione, ha sostenuto Sen intervenendo ad un convegno a Bologna. Lo studioso ha infatti definito “un grosso errore” concentrarsi sui tagli.
Un errore, ha insistito, che si sta rivelando molto costoso per l'Unione europea. Inoltre, ha accusato, in Europa c'è un'altra grave carenza. Quella di una mancanza di analisi e di giudizio pubblico su queste politiche. Insomma, voleva dire Sen, è tragico che i politici europei, che sono stati eletti con il voto popolare, abbiano deciso di cedere il potere legale a tecnocrati, uomini di fiducia dell’Alta Finanza, o anche nel caso di governi normali, abbiano deciso di adottare politiche economiche ultra-liberiste che vanno contro gli interessi dei cittadini. In Europa ha osservato Sen, non c'è un accordo politico generale sul come uscire dalla crisi. I Paesi europei si sono fatti commissariare.
Oggi, ha accusato, siamo di fronte ad una “leadership finanziaria europea”, che promuove questi tagli alla spesa pubblica per ridurre il deficit. E Sen ha spiegato di volersi riferire alla Banca centrale europea e “alle altre banche”. Espressione che fa pensare subito alle banche inglesi e alle filiali di quelle Usa che da anni speculano contro i Paesi europei, contro i loro titoli di Stato e di riflesso contro l’euro per sostenere e salvare il dollaro e la sterlina.
Da parte delle autorità europea, manca una sfida che venga lanciata ufficialmente al pensiero dominante. Quello, ha precisato, che è rappresentato dalle banche, dalle istituzioni finanziarie, dalle agenzie di rating e dalla Bce. Non si vede e non si sente, ha accusato, un dibattito vero e proprio e di alto livello su queste politiche. Affermazione che deve intendersi nel senso che la politica europea ha accantonato il suo ruolo storico di indirizzo e di traino della politica economica e ha smesso di porsi come il soggetto che deve ridistribuire il reddito prodotto verso i settori più emarginati della società. Soprattutto, voleva dire Sen, la politica europea ha deciso di accettare ad occhi chiusi i principi del Libero Mercato lasciando che fosse la famigerata “mano invisibile” a creare le premesse per la migliore allocazione delle risorse.
Un principio che era falso già ai tempi di Adamo Smith e che è ancora più falso oggi che un capitalismo affamato e vorace ha imposto l’abbattimento delle frontiere e la nascita di un grande mercato globale. Un capitalismo finanziario che ormai dirige tutta l’economia mondiale e che è in grado di fare nascere e cadere i governi come birilli. Un capitalismo che non incontra alcuna remora a speculare contro i titoli di Stato di questo o quel Paese anche se questo dovesse metterli in ginocchio e innescare una povertà di massa.
Sen che proviene da un Paese dove la povertà di massa è un fatto reale, conosce bene i suoi polli. Conosce bene le dinamiche finanziarie ed economiche globali e i soggetti che le alimentano. Sa bene che la povertà non può fare altro che aumentare senza un intervento diretto degli Stati per correggere gli squilibri che si venissero a creare in termini di distribuzione del reddito e per evitare una deriva sociale del tipo di quella che stiamo vivendo.
Quello che i governi dovrebbero invece fare, ha detto, è di espandere la crescita economica attraverso nuova spesa e investimenti pubblici. Questo, ha spiegato, porterebbe ad una riduzione del disavanzo perché aumenterebbe il reddito e la ricchezza pubblica. Purtroppo, ha notato, l’unico dibattito, se così si può definire, sull’ideologia economica dominante, è quello svolto dalle proteste di Occupy o degli Indignados. A questi si possono aggiungere i voti di protesta a cui si sta assistendo in Europa. Ma non c’è, ha lamentato, un dibattito paritario, ma soltanto uno di tipo asimmetrico. Uno insomma nel quale chi detiene il potere reale, le banche, continua a comandare e ai dissidenti è consentito soltanto di alzare la voce senza essere in grado di cambiare le cose. Non c’è insomma un dibattito nel quale vengano contestati i fondamenti dell’ideologia liberista dominante.
L’economista indiano ha infine criticato il tentativo della Germania di Angela Merkel di leggere la realtà europea in una maniera a lei congeniale. Una lettura che può andare bene per la Germania ma che sarebbe un errore se venisse imposta a tutti gli altri. Anche in questo caso, in mancanza di una critica, sarebbe la dimostrazione che il dibattito manca. Anche se, ha concluso, la Germania ha fatto tante cose per l'Europa.
Fonte: rinascita.eu 11 Maggio 2012
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