di Sergio Di Cori Modigliani
Libero Pensiero
Non credo che né Monti né la Merkel avranno il coraggio e l’intelligenza critica, entro un tempo davvero molto breve, di ammettere di aver svegliato il terribile gigante che dormiva. Basterebbe vedere come la truppa mediatica europea sta riferendo ai propri cittadini l’andamento del G20 in Messico, e come sia diversa l’interpretazione di quest’incontro se si vanno a leggere, invece, le opinioni in Usa, in Sudamerica, in Australia, in Giappone.
Qui, ancora si fa credere alla gente che si tratta di manovre, di una certa legge da far passare, di aliquote, di percentuali. Usano apprendisti stregoni ai quali viene affidato il còmpito di imbastire piani di sviluppo per 80 miliardi di euro, pensando che la gente abboccherà, rimanendo indifferente, come ad esempio in Italia, dinanzi al fatto che il piano Passera contiene 188 pagine di aria fritta e non esiste neppure un capitolo di quel progetto dove si parla di investimenti “reali” (nel senso di danaro cash per investimenti autentici rivolti ad aziende vere che producono merci reali) e l’attenzione del pubblico viene dirottata su tutt’altri fronti, dagli esodati all’articolo 18, da qualche pettegolezzo parlamentare a qualche minuzia gossip sul mercato. Negli ultimi sei mesi, la figura del ragionier vanesio ha assunto sempre di più l’immagine di ciò che egli davvero è: un curatore fallimentare. E niente di più di questo.
Ciò che sta accadendo, in maniera davvero impressionante, va assomigliando sempre di più, e in maniera inequivocabile, al tragico scenario di paura, indifferenza, e miope cinismo, che alla fine degli anni’30 consegnò il destino delle popolazioni europee alle mire espansionistiche tedesche. Studiando la storia della seconda guerra mondiale, salta subito agli occhi la facilità con la quale, nei primi anni, la Germania del Terzo Reich, si impossessava delle nazioni europee espoliandole dei loro beni.
Sembrava un gioco da ragazzi.
E gli Usa?
Loro, “apparentemente” stavano a guardare.
In realtà, gli Usa stavano facendo due cose: A) armandosi a tappe forzate per prepararsi allo scontro frontale ben equipaggiati; B) gestendo tutte le proprie risorse per fare in modo che l’impatto economico-finanziario della guerra in Europa e in Asia non andasse ad intaccare, permeare, e forse affondare anche l’America.
La gente pensa che la “globalizzazione” sia stata inventata dieci anni fa, non si sa da chi. Non è vero affatto.
Diciamo piuttosto che oggi, assistiamo alla “globalizzazione per le masse” in virtù dell’esistenza del mondo mediatico web. Ma le centrali del potere finanziario ed economico sono globali da almeno 500 anni. Tant’è vero che il re di Spagna –a meno che non volesse la guerra- prima di fare una qualsivoglia mossa, si informava prima sull’opinione del Papa, del re d’Asburgo, del re di Francia e di quello d’Inghilterra e concertava con loro. Erano tutti strettamente collegati in un gigantesco quadro di globalizzazione, che allora trovava la sua rappresentazione simbolica pubblica nei matrimoni dinastici incrociati. Perfino Napoleone si era arreso a questa consuetudine, sposando Maria Luisa d’Austria che lui detestava e non la voleva. Allora funzionava così.
Sono cambiati gli stili, le mode, i linguaggi, le apparenze.
Ma non la sostanza.
Nell’agosto del 1941, con le armate tedesche lanciate nelle grandi pianure ucraine verso Mosca, in Usa scatta l’allarme. Non quello militare, bensì quello economico. La guerra europea e quella asiatica, infatti, aveva comportato una modificazione nella qualità della gestione degli scambi commerciali planetari tale per cui l’impatto sull’economia mondiale –e quindi statunitense- aveva cominciato a mordere (oggi, va da sé, è molto più veloce) già a febbraio del 1941, penalizzando in maniera contundente il business americano, ma pensavano di poterlo controllare. Non ci erano riusciti. Nel 1939 Gli Usa erano il principale partner economico della Germania nazista, la Francia il secondo. Alla fine del 1940, il primo partner tedesco era diventato il Giappone e la Francia era stata annessa al terzo reich, espoliata di ogni suo bene. L’espansione imperialista del Giappone nel sud est asiatico aveva prodotto un crollo dei prezzi delle merci, grazie allo schiavismo imposto dal militarismo nipponico. Grano, orzo, riso, luppolo, venivano venduti dal Giappone alla Germania a un prezzo tre volte inferiore a quello degli americani, garantendo la perfetta alimentazione equilibrata delle truppe tedesche. E gli Usa, cominciavano a perdere quote di mercato al punto tale da trovarsi sull’orlo di una spaventosa crisi economica nell’estate del 1941, perché correva il rischio di trovarsi in una gigantesca crisi di sovraproduzione agricola e provocare un altro crollo in borsa e una crisi come nel 1929, questa volta evitata grazie all’accortezza dei dispositivi economici di salvaguardia ben orchestrati dall’eccellente accoppiata Roosevelt/Truman, i quali, a suo tempo, si erano presi come consulente un grande economista come John Maynard Keynes e non un modesto ragioniere da operetta. A settembre di quell’anno, i diplomatici statunitensi si incontrarono con quelli tedeschi e giapponesi nelle Hawaii. In seguito a quella riunione (rivelatasi un disastro per gli Usa) gli americani si comportarono come fanno sempre: diedero un ultimatum. Scadenza: 20 dicembre 1941. Entro quella data avrebbero dovuto rivedere tutti gli accordi commerciali e stabilire nuove modalità di relazione economiche pena la guerra.
I giapponesi pensarono di coglierli di sorpresa..
E così, il 7 dicembre ci fu l’attacco a Pearl Harbour.
Quando l’8 dicembre, il comandante in capo dell’esercito giapponese, ammiraglio Yamamoto, si presentò davanti all’imperatore Hiro Hito per fare il suo rapporto, pronunciò la celebre frase: “Temo, maestà, che abbiamo risvegliato dal suo sonno un enorme gigante che dormiva”.
La Storia gli ha dato ragione.
La Storia si sta ripetendo.
Identico schema, stessi attori (con qualche comprimario diverso) e, va da sé, stili e modalità diverse perché non stiamo più nell’Età moderna, bensì in quella post-moderna telematica.
Qualche settimana fa, in un post, avevo cercato di spiegare ciò che stava accadendo, ricordando che ogni popolo e ogni etnia ha i suoi codici, il suo linguaggio, il suo stile. Se un tedesco dice: nein; vuol dire no. E il discorso finisce lì, è inutile tentare di far cambiar loro idea. Se un politico italiano dice: sì; può voler dire no, oppure un forse a condizione che. Se un francese dice: rien; non è detto che sia un no come i tedeschi, neppure un forse come gli italiani: significa che vogliono trattare e sono disponibili.
E così via dicendo.
Gli americani, quando danno un ultimatum, non lo fanno perché sono isterici.
Non lo fanno perché intendono minacciare.
Quando danno un ultimatum, vuol dire che loro sono già pronti e si sono già preparati. E alla scadenza dell’ultimatum, se le cose non sono andate com’è nei loro interessi, partono i bombardieri.
Nelle guerre i simboli e i linguaggi sono fondamentali.
L’Europa –cioè la Merkel e i suoi servi sciocchi al seguito- hanno commesso il gravissimo errore di voler modificare la linguistica comportamentale, imponendo la propria e non “rispettando” quella degli americani in sonno.
Gravissimo errore. Gravissimo. Lo pagheremo caro.
La scadenza erano le ore 12 del 17 giugno 2012.
Alle 12.01, esattamente, sono partiti i primi bombardieri. Non sono ancora le fortezze volanti, quelle arriveranno tra un po’.
E’ stato un atto simbolico.
E’ stato il welcome al G20 di Obama, e delle economie keynesiane forti del continente americano: Messico, Brasile, Argentina. Dopotutto è il loro continente. Appoggiati, in questo caso, dal Giappone, che ha incorporato la lezione della guerra e ha trovato la quadratura del cerchio nei decenni: conservatori in politica, tradizionali nel sociale, keynesiani progressisti in economia. Hanno una economia solida, con un disavanzo pubblico di circa 5.000 miliardi di euro, circa il 152% superiore a quello dell’Italia, e un’inflazione intorno al 2% con una disoccupazione al 3%, 0% di povertà. Per i neo-liberisti è un assurdo. Secondo loro non è neppure possibile a livello di teoria. Ma lo è in pratica.
E nell’esistenza, ciò che conta è la pratica.
Nell’attuale teatro bellico, è la Cina ad aver preso il posto occupato nel ’40 dal Giappone.
I bombardieri americani hanno un nome ben preciso che poco a poco gli analisti finanziari europei si dovranno abituare a conoscere: si chiama “Code Abe”.
Il nome, una minaccia.
(Abe, è l’affettuoso abbreviativo di Abraham Lincoln, leader repubblicano massone che ha guidato la lotta contro lo schiavismo).
E’ un acronimo.
Sta per “Anything But Europe”.
E’ un ordine perentorio (annunciato, preannunciato, vagheggiato, preparato) dato al grosso capitale finanziario statunitense delle multinazionali di disinvestire “immediatamente” dall’Europa spostando ingenti quantità di capitale negli Usa per rilanciare l’economia americana, con grandiosi incentivi. Hanno istituito uno strumento finanziario complesso che si chiama CBI (Corporate Investment Bond) e funziona –spiegato qui in maniera sintetica- nel seguente modo: si chiama la Coca Cola o la Ford o la Boeing e si dice loro: “ragazzi, istituite un fondo che rappresenta la vostra azienda, lo traducete in uno strumento finanziario e lo offrite a capitalisti investitori con un interesse molto più vantaggioso di quello offerto dai bpt italiani, spagnoli, e anche tedeschi: Se vi va male, non vi preoccupate: noi battiamo moneta e ve li rimborsiamo compresi gli interessi di esercizio. Se va bene, voi guadagnate un bel po’ ma il 51% del profitto netto lo investite negli Usa per creare lavoro e occupazione”. Hanno accettato.
Altro che “speculazione finanziaria”. Roba da ridere.
Questi sono i bombardieri americani, inviati dal comandante in capo dell’esercito più potente del pianeta, il quale non ha nessuna intenzione di arrendersi all’accordo di ferro Merkel-Romney, senza aver venduto prima la propria pelle a caro prezzo.
Mentre l’Europa, gestita da una protervia arrogante davvero infantile, il lunedì 18 agosto investiva al rialzo, alle ore 12.01 sono cominciate ad arrivare inattesi ordini di vendita (e svendita) tutti dagli Usa e tutti ben concentrati su posti chiave dell’economia europea, mandando a picco le borse europee e alle stelle lo spread. Si calcola che nella sola giornata di lunedì scorso, dalle ore 12.01 alle ore 17.01, siano stati spostati circa 48 miliardi di euro. Una bazzecola rispetto a ciò che faranno. Per il momento sufficiente tanto per spiegare come si stanno mettendo le cose. Tant’è vero che Obama, a Los Cabos, parla con i singoli esponenti. Ma la riunione al vertice l’ha cancellata.
Quando sono partiti i bombardieri, ormai, non ha più senso parlare. Di che?
Da noi, in Italia, va da sé, neppure una parola su tutto ciò.
Ma è comprensibile.
Siamo in un teatro di guerra e quindi, oltre ad avere un’economia di guerra, stiamo anche sotto la propaganda bellica.
A questo serve la truppa mediatica asservita.
Al fronte, in prima linea, la storia è tutta un’altra.
Fonte: Libero Pensiero 20 Giugno 2012
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